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È finita l’epoca della Csr? Nuovo paradigma per la Responsabilità Sociale d’impresa

 “Il capitalismo è sotto assedio” scriveva nel 2010 Michael Porter, docente universitario di strategie e management e consulente di numerose corporation e multinazionali.

Il rapporto tra impresa e società, così come è impostato oggi, rischia di fallire” afferma McKinsey in un articolo del 2013 pubblicato sul blog della società di consulenza omonima, probabilmente la più grande al mondo (il report in questione lo si può leggere in lingua originale a questo link).

Non si parla esattamente di esponenti di movimenti antagonisti e antisistema, ma di due personalità di spicco all’interno del panorama imprenditoriale.

Sorge spontanea una domanda: siamo di fronte a un cambio di passo e di paradigma nei modelli di fare impresa e di avvicinarsi alla responsabilità sociale? Dove stanno sbagliando le imprese/organizzazioni? Che cosa non funziona nell’approccio tradizionale finora adottato dalla governance aziendale?

Andiamo con ordine.

Intanto, che cosa si intende per Responsabilità sociale d’impresa (in inglese “Corporate Social Responsability”, Csr)?

Anche se le definizioni in genere sono noiose, è bene partire da un concetto comune: un’organizzazione è socialmente responsabile quando è consapevole dell’influenza che esercita nella società e se ne fa carico concretamente con comportamenti che rispondono alle aspettative dei soggetti sociali, come quelle relative al rispetto dell’ambiente, alla sicurezza, al miglioramento della qualità di vita dei lavoratori, dei consumatori e della comunità di appartenenza.

Quindi, le imprese che decidono di agire oltre i dettami di legge al fine di rispondere alle esigenze della collettività sono socialmente responsabili. E lo sono a un livello di eccellenza quando arrivano ad adottare politiche sociali che guidano i processi di decision making. Essere socialmente responsabili può avere senza dubbio numerosi vantaggi:

  • permette di creare un ambiente lavorativo migliore, favorendo la motivazione e la soddisfazione personale di dipendenti e collaboratori;
  • consente di costruire e mantenere un’immagine positiva, di ampliare e stabilizzare reti di relazioni con l’ambiente in cui l’organizzazione è inserita, favorendo nuovi contatti e opportunità economiche.

Secondo molti studiosi, tuttavia, “è finita l’epoca della Csr”. L’approccio tradizionale verso questo insieme di attività ha avuto qualche effetto positivo, ma non duraturo e completamente soddisfacente: infatti, nella maggior parte dei casi la Responsabilità Sociale d’Impresa è venuta meno al suo scopo principale, che consiste nel costruire relazioni più forti con il mondo esterno.

 

 


 

DALLA “CREAZIONE DI VALORE” AL “VALORE CONDIVISO”

Michael Porter, padre della “Teoria del valore condiviso”(“Shared Value Theory”), afferma che la Csr non si deve limitare alla condivisione del valore creato, inteso come distribuzione di utili ai fini filantropici (in sintesi, “fare beneficenza”). Ma deve integrare le logiche e le aspettative degli stakeholder dentro le strategie d’impresa, creando un valore che deve essere condiviso con l’esterno. Questo sposta il paradigma della Responsabilità Sociale d’Impresa dal dono, dall’elemosina, dalla concessione a una logica di co-progettazione con gli stakeholder. La domanda che l’impresa pone ai suoi interlocutori sul territorio non è più “Che cosa vuoi che io faccia per te?” ma è “Che cosa posso darti di quanto ho di mio per crescere insieme?”.

Un’impresa dovrebbe quindi generare una piena condivisione delle proprie risorse (tangibili e intangibili) con la comunità per contribuire, anche attraverso la creazione di ricchezza, a dare una risposta ai suoi bisogni.

Quello del valore condiviso è un approccio non più protettivo o difensivo (perlomeno non solo), ma positivo, applicabile alle diverse aree di attività aziendale.

 

 


 

COSTRUIRE RELAZIONI (GOODWILL) CON IL MONDO ESTERNO

La società di consulenza McKinsey, invece, sostiene che la Csr ha fallito perché confinata in uffici e iniziative slegate dal business e, soprattutto, di breve periodo, spesso attuate per “lavarsi la coscienza”, con un approccio solo difensivo e limitato al qui e ora.

L’approccio tradizionale, infatti, presenta più di un difetto:

  • si basa molto spesso su iniziative promosse dall’alto che non incontrano il supporto attivo e partecipe da parte di chi si occupa del business dell’azienda;
  • queste iniziative molto di rado arrivano a influenzare la politica governativa o gli esiti decisionali in materia legislativa.
  • le proposte vengono avanzate in modo superficiale e senza conoscere a fondo i bisogni e le aspettative reali degli stakeholder che influenzano e sono influenzati dall’attività dell’organizzazione;
  • di frequente si utilizzano azioni di Csr unicamente come mezzo per proteggere la propria reputazione o per modificare la propria immagine;
  • solitamente la loro messa in atto è separata dall’attività commerciale dell’azienda, pertanto la loro sopravvivenza è legata solamente alla volontà del management e alla disponibilità economica dell’impresa.

Tutto questo non permette di generare alcun impatto sociale significativo, né di rafforzare la competitività aziendale nel lungo periodo. Chi governa l’impresa, scrive McKinsey, ha bisogno di un nuovo approccio per affrontare le esigenze dell’ambiente esterno, integrando le aspettative di tutti gli stakeholder coinvolti a ogni livello e costruendo solide relazioni e reti con il mondo circostante. Secondo la società di consulenza, “il futuro è nell’external engagement integrato”, ossia un nuovo modo di fare Responsabilità Sociale d’Impresa, che consiste nell’insieme degli sforzi compiuti da un’azienda per gestire la sua relazione con il mondo esterno. Questo deve essere parte integrante del processo decisionale, e non più qualcosa di lontano dal “fare business”: deve riguardare ogni decisione dell’impresa a ogni livello.

L’impresa è costantemente sotto osservazione da parte dell’opinione pubblica, dei cittadini, della società. Questi si aspettano, rispetto al passato, una maggiore attenzione da parte delle aziende alla relazione tra la loro attività e l’ambiente circostante. Non è più sufficiente rispettare la legge e adeguarsi agli standard previsti, ma ci si aspetta che questi parametri vengano rispettati lungo l’intera catena di fornitura e distribuzione. Per questo le imprese devono essere attrezzate per far fronte al crescere delle esigenze sociali.

 

 


 

IL SUCCESSO DELL’ORGANIZZAZIONE “DIPENDE” DALLA QUALITÀ DELLE SUE RELAZIONI

Il successo di un’azienda dipende strettamente dal suo rapporto con il mondo esterno.

La Csr deve quindi essere sempre più integrata nel processo decisionale partendo da:

  • una nuova consapevolezza del proprio ruolo, non solo economico;
  • una profonda conoscenza e un costante ascolto degli stakeholder;
  • da una gestione della Csr “dentro” i processi di business;
  • una definizione del contributo che l’azienda è in grado di offrire alla società, rendendolo esplicito;
  • una attenta e costante comunicazione con il mondo esterno (fare, fare bene, farlo sapere, essere riconosciuti per averlo fatto).

Concludendo, il baricentro dell’impresa si sta via via spostando verso l’esterno e il suo successo dipende sempre più dalla qualità delle relazioni che l’organizzazione stessa riesce a costruire, sia all’interno che all’esterno. I riferimenti non sono più solo i “consumatori” ma tutti gli stakeholder in grado di influenzarne le strategie quanto i clienti influenzano l’offerta.

Non più un’impresa che entra nella società, quindi, ma la società che entra nell’impresa.

Da una parte, le strategie dell’impresa devono incorporare in misura crescente le esigenze di tipo sociale e ambientale, ma, dall’altra, gli attori sociali (compreso il sindacato) devono imparare ad accogliere le strategie economiche dell’impresa come una legittima ricerca di profitto che deve andare a beneficio non solo dei dipendenti, degli azionisti e/o della proprietà, ma anche della società più in generale.

Questo richiede un cambiamento anche negli attori sociali, che devono trasformarsi da filantropi in attori protagonisti, per costruire il bene comune.

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